Guerra, Pace

Guerra

Il primo grande teorico delle strategie di guerra il generale Carl von Clausewitz (Vom Kriege, 1832) aveva fissato alcuni principi:

  • la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Nessuna guerra nasce improvvisamente ma è lungamente preparata. Le conseguenze sono importanti: se vuoi la pace la devi costruire altrettanto lungamente. Come diceva un altro teorico in oriente: quando la prateria è secca basta una scintilla per un grande incendio.
  • Nella guerra c’è una linea rossa che separa gli eserciti, o stai da una parte o stai dall’altra; la violazione di questo principio – che qui intendo sostenere - costa molto caro.
  • Nella guerra la vittoria si realizza quando nell’esercito nemico si scioglie il vincolo disciplinare: «si tratta anche dell’ordine, del coraggio, della fiducia, del complesso della possibilità o meno di persistere nel combattere. Sono principalmente queste forse morali che decidono della vittoria.

Anche l’imbastitura del combattimento dovrà essere concepita a preferenza in tal senso: la distruzione dell’avversario con la morte e le ferite, si presenta qui come un puro mezzo. …l’idea della vittoria, la quale diviene…ben altra cosa che una semplice strage», Carl von Clausewitz. Questi i principi della guerra ottocentesca; la grande trasformazione del novecento è la “guerra totale” le cui caratteristica principale è il coinvolgimento intenzionale della popolazione civile in due modi:

  • primo nella “guerra psicologica”: tentativo, con la propaganda e le false informazioni, di staccare le “masse popolari” dai governanti che hanno deciso la guerra e dall’esercito che la combatte che è fatto con i figli di quella popolazione;
  • secondo con le stragi: uccidere un numero spropositato di civili diventa un mezzo importante per fiaccare la volontà di resistenza del popolo inerme e dell’esercito che combatte in suo nome. Questo implica che le stragi immotivate sono elemento essenziale della guerra quando il suo obiettivo non è neutralizzare la forza armata ma sottomettere un popolo o cambiarne il regime politico.

La data di inizio della guerra totale secondo alcuni è il 7 maggio 1915, data dell’affondamento intenzionale della nave passeggeri Lusitania. Si discusse dei dettagli della cosa, ma nella prospettiva storica e nell’uso che ne fu fatto è chiaro che si trattava dell’inizio della uccisione intenzionale di civili. Di certo c’erano stati molti precedenti locali. Il più importante di tutti è forse il primo bombardamento a tappeto effettuato dall’aeronautica italiana in Libia il 1º novembre 1911. Il generale Giulio Douhet ne fu il teorico riconosciuto anche in campo internazionale. Le tappe di questa scia di morte (Larson: Scia di morte) che attraversa il secolo passato per giungere fino a noi sono, molto all’ingrosso: Guernica, Coventry, Dresda, Hiroshima e Nagasaky e abbiamo esperienza diretta dei bombardamenti sulle città italiane, delle stragi naziste e fasciste di rappresaglia. Di meno sappiamo delle stragi compiute nel corso della guerra civile russa del governo sovietico contro l’armata bianca. Lev Trotskj, che dirigeva le operazioni alloggiato in un triste treno blindato che percorreva le grandi pianure della Russia, si era specializzato tra l’altro a sterminare per fame interi villaggi semplicemente circondandoli e impedendo qualsiasi rifornimento. Una lezione da tenere presente. Di meno sappiamo delle stragi giapponesi in Cina e Corea, Vietnam… ma in oriente se ne ricordano bene. In Italia abbiamo fatto una particolare esperienza di “guerra totale”: i protagonisti della “strategia della tensione” avevano teorizzato fin dai primi anni sessanta che una serie di attentati coordinati con opportune campagne di disinformazione e di depistaggi potesse “staccare il popolo” dal suo governo per consentire poi un colpo di stato militare. Come sia stata fronteggiata questa strategia, e quanto danno resta ancora nella società italiana non credo sia mai stato trattato adeguatamente e forse in questo momento siamo nuovamente “chiamati alle armi” con la stessa logica, con la stessa voglia di farla finita con i ragionamenti per passare agli arruolamenti.

Pace

Non esiste un “trattato delle strategie di pace” altrettanto preciso dei trattati sulle strategie militari. Esistono pensatori ed esperienze che hanno contribuito alla pace ma va detto che “costruire la pace” è in sé difficile perché occorre continuamente sciogliere nodi e contraddizioni piuttosto che usare la spada per tagliarli in un colpo solo. Lo stato di pace riguarda il nostro quotidiano e coincide con la ricerca costante di una vita buona, di una possibile felicità. Tra pace e guerra non c’è simmetria, la pace non è assenza di guerra ma un lavoro di costruzione di relazioni, di comprensione, di ricerca del giusto, del buono, del bello. Essere amanti della pace significa essere amanti della vita, rispettare la vita in ogni forma e in ogni tempo, usare la ragione in qualsiasi circostanza. Per mantenere la pace occorre innanzi tutto mantenere la possibilità di riflessione, mantenere i legami d’amore in ogni circostanza. Il re di Tebe Creonte, zio di due fratelli schierati sui lati opposti delle mura della città, l’uno tra gli assalitori, l’altro tra i difensori, conosceva e applicava con rigore la legge della guerra: scegliere da che parte stare. E aveva anche deciso che gli assalitori dovevano non solo ricevere la morte ma in sovrappiù l’odio e il disprezzo con la negazione della sepoltura. Negando un diritto tellurico - diritto che affonda le radici nella terra (tellus) - a cui va restituito il corpo dopo la morte perché si compia il ciclo naturale dalla terra alla terra, si decreta che chi assale la città non sta attaccando il potere politico ma sta violando una legge naturale (a proposito l’esercito russo ha aggiunto un nuovo tassello alla barbarie: non seppellisce neppure i propri morti per non dare scandalo alla popolazione, un segno chiaro che loro stessi stanno operando contro natura). Antigone sorella dei due combattenti sfida apertamente l’editto che vieta la sepoltura dei “nemici” e compare come imputata di fronte a Creonte che le chiede:

  • come fai ad amare entrambi i contendenti?

Lei risponde:

  • nacqui a legami d’amore e non d’odio.

Creonte:

  • non ti vergogni di avere pensieri così distanti dagli altri, sei solo tu a vedere questo.

Antigone:

  • Vedono anche loro, solo per tua paura tacciono.

Creonte comunque rincara la dose e dice:

  • mai sia detto che io mi pieghi al volere di una donna.

Antigone viene condannata a morte e uccisa nel modo più crudele: sepolta viva.

  • Vai a trovare i morti, tu che li ami tanto.

Antigone, il personaggio della tragedia di Sofocle, ha fissato nei millenni il canone di una cultura di pace in tempo di guerra: l’affermazione ostinata dell’amore contro qualsiasi barriera d’odio. George Steiner nel suo volume “Le Antigoni” racconta di come al termine di ogni guerra ci sia stato un revival dell’Antigone, riscritture e rappresentazioni che rispondono al bisogno della società civile di riprendersi dallo choc di una guerra psicologica senza quartiere che ha costretto molti a restare “sepolti vivi”. Per due anni di pandemia abbiamo subito un linguaggio bellico, un obbligo a schierarsi dalla parte delle ”regole” e del fronte comune anti-coronavirus senza se senza ma, mentre la principale istituzione di cultura e di pensiero, la scuola, si ritirava dalla sua missione per dedicarsi completamente alla ”distanza sociale”. Non era finita questa emergenza bellica che ne è cominciata un’altra (si può ipotizzare una connessione psicologica tra i due eventi?) e siamo di nuovo chiamati ad arruolarci. La prima reazione di fronte all’aggressione di uno stato forte su un altro è quello di dover difendere l’aggredito, di voler imbracciare un fucile o meglio un bazooka per aiutare gli aggrediti, e se non corro lì a combattere o almeno ad aiutare i combattenti sono un vigliacco. E intorno a ognuno di quelli che rifiutano di schierarsi nasce un coro di condanna, l’accusa di essere “oggettivamente” a favore del più forte. Il compito più importante per noi, per i nostri figli, per i nostri vicini, per le giovani persone per le quali vogliamo svolgere il ruolo di educatori è di conservare la nostra integrità, di non degradare il nostro pensiero alla semplificazione bellica, di non rinunciare ai legami d’amore che vanno oltre la linea rossa che divide gli eserciti. Naturalmente i due contendenti dipingono chi conserva capacità di ragionare e pensare come una posizione “equidistante”, ma non è così: chi sceglie la ragione capisce bene chi ha aggredito e chi è aggredito, capisce bene che chi è aggredito non è “buono” e virtuoso e chi aggredisce non è cattivo e odioso, semplicemente sta da un’altra parte rispetto agli schieramenti. Antigone nella sua risposta a Creonte avrebbe potuto ricordargli che il suo potere era illegittimo e che era un usurpatore, ma usare questo argomento significava accettare la logica bellica. Ci sono persone che stanno rivivendo il dramma di Antigone: tra le prime interviste a persone “qualunque” ricordo quella a una donna russa che vive a ridosso del confine ucraino. L’intervistatore chiede la sua posizione rispetto alla guerra e lei risponde:

  • Sono neutrale.
  • Come fa ad essere neutrale in questa situazione?

e lei risponde:

  • Ho da poco sepolto mio fratello ucciso in una guerra che non sapeva di combattere e la maggioranza dei mei amici vive in Ucraina, dove devo schierarmi?

Un’altra donna, ucraina, che vive in Italia, credo una cantante, ha detto: - finora mi sono interessata poco di politica, ma da quando ho un figlio ho capito di dovermene occupare. Il contrario dello stereotipo secondo cui chi si dedica alla famiglia si chiude all’impegno sociale. Le donne e le madri che si oppongono ai tiranni e alla tirannia della guerra sono all’origine di ogni resistenza, al dovere della resistenza. C’è una storia biblica che ho raccontato ai bambini della mia classe il giorno in cui è cominciata la prima guerra in Iraq, quella dell’invasione del Kuwait, è la storia di Giuditta che mentre i maggiorenti di Betania avevano già deciso per la resa, prende l’iniziativa e taglia la testa al tiranno. Mi piace pensare a questa decapitazione in senso simbolico, la decapitazione dell’odio: l’armata di Oloferne si scioglie non appena muore il suo capo; e a me in quel caso serviva un esempio di opposizione alla demoralizzazione. Dovevo combattere contro una demoralizzazione generale che coinvolgeva tutti gli adulti a causa della connessione che si era stabilita tra una sanguinosa guerra di camorra a ridosso della scuola stessa, il pericolo rappresentato dai depositi di petrolio nel quartiere e la guerra in Kuwait.   Fa parte del riuscire a pensare immaginare possibili soluzioni di pace, compromessi necessari per mettere fine alla guerra. I governi europei in venti anni non hanno fatto nulla per disinnescare possibili conflitti ma hanno sistematicamente sostenuto ogni tipo di nazionalismo e di prepotenza che alimentasse i loro affari. E oggi si affidano solo al soccorso armato, mentre non c’è all’orizzonte nessuna proposta di mediazione che aiuti, per esempio, alla costruzione di uno Stato che gestisca pacificamente la convivenza di numerose minoranze. Penso al fatto che uno statuto di neutralità internazionalmente garantito non sarebbe un cedimento alla prepotenza russa ma al contrario indicherebbe una soluzione diversa proprio nel luogo in cui le contraddizioni sono più vive, perché sia l’inizio di tanti processi di pacificazione che dovrebbero realizzarsi nel mondo a partire dal conflitto più lungo che ha mantenuto il filo di continuità tra la prima e seconda guerra mondiale e oggi, il conflitto israeliano palestinese.   Cosa succede quando ai due lati della linea rossa non ci sono due eserciti ma ci sono due popoli? Da una parte il popolo russo, vittima di una repressione violenta e al tempo stesso di una violenza psichica senza precedenti che assume i toni delle grandi dittature ideologiche del secolo passato (nazismo, fascismo, stalinismo). Dall’altra un popolo che è giocoforza vittima di un regime autoritario che agita l’odio antirusso per promuovere ‘pulizie etniche” nei suoi confini e che si trova oggi inopinatamente a presentarsi come estremo difensore della democrazia. Qualcuno ha detto che a volte la linea di confine divide in due lo stesso mucchio di letame. Succede che la coscienza di tutti noi è dilaniata, che non è possibile stare con l’uno o con l’altro perché nessuno dei due ha i requisiti per poter essere un riferimento giusto. A maggior ragione vale la posizione di Antigone, che non è neutrale, semplicemente abbraccia le ragioni della vita di entrambi i contendenti. C’è una resistenza che proviene dalle persone che difendono sé stesse e i propri figli dalla violenza della guerra e dalla violenza della repressione e sta da entrambe le parti della linea del fronte. Questa resistenza nel caso dell’Ucraina e di alcuni suoi alleati – penso alla Polonia – si salda con la resistenza di un potere dispotico e ingiusto ed è forte la tentazione di astenersi da qualsiasi aiuto alla resistenza popolare per non dover indirettamente aiutare anche i despoti che dominano quelle popolazioni. È il dramma di ogni forma di resistenza popolare, dover accettare alleanze ripugnanti: la resistenza italiana fu oggettivamente e soggettivamente alleata dei servizi segreti americani e inglesi che a loro volta reclutavano criminali e mafiosi per organizzare lo sbarco in Sicilia. Insieme alla lotta contro il nazifascismo c’era una lotta sotterranea tra le formazioni monarchiche e conservatrici e quelle che intendevano lottare anche per una maggiore democrazia e qualche volta si è giunti anche allo scontro armato. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, è vero anche il contrario e noi sappiamo che per lungo tempo in Italia lo scontro tra una democrazia vera e gestioni autoritarie del potere è continuato anche in forme violente e oggi gli schieramenti si riposizionano come nulla fosse intorno alla guerra ucraina. Conservare la nostra capacità di discernimento significa anche saper capire che le persone hanno diritto a difendersi e non devono chiedere il permesso a noi; che aiutare le persone in difficoltà è un dovere anche se questo porta indirettamente ad aiutare regimi autoritari, ma tocca ai popoli e a coloro che combattono sul campo capire come usare la propria capacità di resistenza per contenere la tirannia in casa propria una volta fronteggiata l’aggressione Al tempo stesso credo che il principale aiuto che dobbiamo dare è: primo, combattere l’odio da qualsiasi parte arrivi, secondo, pensare e promuovere forme di compromesso possibile basate sulla pacifica convivenza tra popoli diversi, terzo, essere ancora più solidali con quanti in Russia e in altri regimi autoritari cercano di resistere alla tirannia come al conformismo. Dedico questo scritto – contorto come lo è la materia che tratta - a mio figlio che vive in Polonia, paese in cui l’avversione ai governanti russi può assumere facilmente i toni di un odio molecolare per ciascun singolo russo; paese in cui un movimento sbagliato del sopracciglio ti fa ottenere la qualifica di traditore filorusso; paese in cui aiutare gli ucraini significa stare di fianco al pessimo Duda; paese nel quale è difficile difendere la propria integrità da accuse tanto infamanti quanto false. Lo dedico a quanti di noi cercano di mantenere attiva la mente nelle situazioni in cui vieni tirato da ogni parte con la domanda “da che parte stai”. A 700 (+ uno) anni dalla morte di Dante mi pare che risuoni ancora il suo: “faccio parte per me stesso” distinguendomi da compagnie “scempie e malvagie” e da questo punto di vista Dante e noi possiamo permetterci di giudicare i potenti e tenerci immuni dalle loro nefandezze anche quando siamo costretti a conviverci. W Dante.

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