Perchè è difficile la riapertura delle scuole

Patto di salute

Quanti dubbi, quante paure e quante domande tutti noi ci poniamo in questi giorni di riapertura delle scuole...la paura di nuovi contagi è tanta, ma più forte è la voglia di ritornare a quella normalità che ci è stata strappata circa 7 mesi fa.

Ecco che Cesare Moreno interviene sull' argomento, cercando di fornirci qualche risposta che potrebbe aiutarci ad affrontare il nuovo anno scolastico, parla della difficoltà della riapertura delle scuole, racconta degli incontri con le famiglie e tutte le azioni che stiamo mettendo in campo per la comunità educante.



In questi mesi abbiamo lavorato molto, abbiamo imparato tanto, abbiamo sviluppato le nostre riflessioni in molte e nuove direzioni. Tutto è talmente denso che non riusciamo a fermarci troppo sulle cose che accadono. Ho scritto queste cose tra la fine di agosto ed oggi e volevo revisionarle bene e ridurle prima di pubblicarle. Ma non c’è tempo, le pubblico come sono confidando nella comprensione dei miei lettori.


Immunità e comunità

Immunità e comunità. Molti anni fa (1998) il filosofo Roberto Esposito spiegò che immunità e comunità sono una coppia di opposti e precisamente che comunità significa cum munus ossia “obbligazioni reciproche” e immunità significa assenza di vincoli, non essere sottoposto ad alcuna limitazione. Successivamente (2002) ha analizzato il concetto di immunità in relazione allo specifico sanitario sostenendo che l’immunità è un’ossessione della nostra società e che (2008)
…. i virus sono diventati la metafora di tutte le nostre paure, il condensato di tutti i nostri incubi.“
In realtà, ciò che più temiamo è la nostra stessa trasformazione. Il virus rappresenta esattamente questo: una minaccia, simbolica ancor prima che biologica, alla nostra identità. Esso, prima ancora che un potenziale agente infettivo, è il simbolo del passaggio proibito, del transito interdetto, tra un corpo e l’altro, ma anche, ancora di più, tra un genere e l’altro, tra una specie e l’altra, tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e l’animale, tra l’uomo e la cosa.
In questo modo vediamo la relazione stretta tra le due accezioni del termine: l’immunità in senso sociale, significa che il soggetto non deve rispondere a nessuno se non a se stesso, l’immunità sanitaria è non dover rispondere in alcun modo del fatto che il nostro corpo è uno scampolo di natura in mezzo alla vasta natura e quindi sottoposto alle sue leggi – e ai suoi virus – e non alla propria volontà di potenza.
Da questo punto di vista il lockdown potrebbe essere considerato una scelta meramente ideologica e come tale contestabile.
“… c’è un punto oltre il quale l'insistenza ossessiva nei confronti del rischio diventa essa stessa un pericolo.” … come se “ si creasse artificialmente il rischio per poterlo controllare”.
La diffidenza o l’odio verso il potere esistente è il punto d’attacco di ogni negazionismo, e le scelte pratiche conseguenti costituiscono un pericolo per tutti. Se invece ci riferiamo al senso simbolico del “Chiudetevi dentro” questo è talmente discutibile che oggi lo stesso governo fa marcia indietro senza dirlo.
Con troppo entusiasmo avevano gridato “chiudetevi dentro”; con troppo entusiasmo un coro di giornalisti e opinionisti ha accumulato informazioni e dichiarazioni che hanno indotto uno stato di terrore e tutto si fondava sull’assunto che ad un certo punto il virus se andasse per i fatti suoi, o che fosse sconfitto in campo aperto, Ci si muoveva nel paradigma dell’immunità: ripristiniamo quanto prima le condizioni dell’immunità. Nel frattempo tutti fermi, tutti chiusi dentro che ci stanno gli scienziati al lavoro che troveranno la soluzione.
Senonché
“ l’immunità, necessaria a proteggere la nostra vita, se portata oltre una certa soglia, finisce per negarla: … costringe la vita entro una sorta di armatura nella quale si perde non solo la nostra libertà, ma il senso stesso della nostra esistenza individuale e collettiva: vale a dire quella circolazione sociale, quell’affacciarsi dell’esistenza fuori di sé” che Esposito (2002) definisce con il termine ‘communitas’ “carattere costitutivamente relazionale dell’esistenza”.
Del rischio paralisi si sono accorte – a modo loro – anche le nostre autorità infatti stiamo ritornando a scuola. Il virus è sempre lo stesso, non ha cambiato rotta, non ha nessuna intenzione di rintanarsi, quindi torniamo a scuola non in condizioni di immunità ma di convivenza con il virus: minimizzazione del rischio ma pur sempre rischio. Senonché in attesta della ‘soluzione finale” (soluzione finale è sempre espressione sinistra anche riferita ad un virus) nulla è stato fatto per diminuire i rischi: non si misura la temperatura all’ingresso, non c’è uno screening obbligatorio per gli operatori, c’è ancora confusione su chi e come possa prendere delle decisioni. Sostanzialmente le stesse condizioni di febbraio.
E’ importante registrare il cambio di paradigma, perché ci sono importanti conseguenze sulle strutture di pensiero, sulla psicologia individuale e collettiva, nei comportamenti sociali.


Il possibile ed il probabile

La ricerca dell’immunità significa certezza e quindi esclusione della più remota possibilità di infezione. Il mondo del possibile è un mondo potenzialmente psicotico: la possibilità è una costruzione puramente mentale che può dare corpo ai fantasmi. I portatori sani del Covid19 hanno assunto il ruolo di fantasma persecutorio perché potrebbero essere ovunque. Abbiamo visto come in questa logica ci sono stati gli estremisti del chiudersi dentro: perché solo un metro, facciamo due, perché fare eccezione per i congiunti, teniamo anche loro a distanza etc… Soprattutto il paradigma dell’immunità è congeniale ad un potere gerarchico: voi chiudetevi dentro al resto ci pensiamo noi e i nostri ‘tecnici”.
Nel paradigma opposto, quello della comunità. Ha un posto importante la probabilità: non pretendiamo di eliminare il pericolo ma ti tenerlo a bada sia in senso fisico sia in senso psichico. Dobbiamo convivere con l’incertezza, valutare continuamente i rischi. Nella comunità c’è fiducia reciproca perché non c’è nessuno che possa pensare al posto nostro, abbiamo fiducia nella nostra ragione e discernimento, possiamo stringere alleanze con gli altri e non semplicemente alzare barriere. Che differenza c’è tra un congiunto, un amico e uno sconosciuto? C’è il modo di diventare congiunti anche senza un vincolo di parentela? Una comunità è appunto un luogo di legami profondi anche senza parentela. Noi maestri di strada pratichiamo da molto l’idea che la comunità si costruisce attraverso gesti concreti, attraverso la reciprocità della cura e dell’accudimento.
A partire dal 1 aprile abbiamo ripreso gli incontri con i nostri ragazzi; li abbiamo chiamati “incontri distanziati del terzo tipo”, ma pur sempre incontri. Abbiamo esteso e rinforzato la comunità: il disagio condiviso consolida le alleanze, l’amore. Siamo stati distanti con ìl corpo, ma mai con la mente ed il cuore, abbiamo lenito il dolore della distanza. Abbiamo accettato di stare chiusi dento ma non abbiamo accettato il paradigma dell’immunità e questo ci ha aiutato a pensare, ci ha aiutato non trovare alternative, ma a vivere educativamente una situazione difficile.
Ci siamo assunti il compito di sostenere la comunità, la comunicazione, la pietà umana verso chi soffre, verso chi resta fuori dalle misure protettive totalizzanti che non proteggono i più deboli, abbiamo continuato a dare segnali di esistenza della solidarietà anche in assenza di contatti. Secoli orsono, senza internet, piccole comunità isolate da lunghe distanze segnalavano la loro rinascita primaverile con grandi fuochi, quel fumo visto a distanza segnalava che la comunità aveva superato l’inverno. Ecco cosa ha significato per noi superare i limiti del distanziamento fisico e non accettare l’ideologia del “chiudetevi dentro”
La scuola ufficiale – intendo le direttive che arrivano dal ministro dell’istruzione – non sta sostenendo lo sviluppo della comunità.
Il paradigma immunitario-gerarchico rinchiude ogni operatore e ogni categoria in un mansionario rigido e anche le emergenze sono affrontate dentro quel paradigma. A chi tocca misurare la temperatura all’ingresso? Non è una mansione prevista né nel mansionario ATA (amministrativi, tecnici ed ausiliari) né in quello docente.
Già come si fa?
C’era una volta la medicina scolastica; è stata smantellata, ma c’è ancora la ASL. Siamo contenti, abbiamo trovato il tecnico preposto. Sulla praticabilità di tutto ciò meglio non interrogarsi, ora la palla è agli altri.
Maestri di strada il mansionario lo costruisce sul campo perché a monte c’è una forte alleanza dei suoi operatori e di questi con gli allievi e le famiglie. In questo periodo abbiamo fatto formazione, abbiamo chiamato gli esperti - perché sappiamo che non ci si improvvisa - quindi abbiamo misurato temperature, verificato certificazioni, predisposto il tracciamento.


Patto di salute 1.0

Bisogna ripartire da un ‘patto di salute” (di salute e non sanitario) in cui semplicemente si dica che la promozione della salute è un compito condiviso, che la salute non è delegabile e che dobbiamo occuparcene in prima persona. Svincolare la salute dal sanitario facendosi aiutare dai sanitari, adottando le misure che un tempo rientravano nei compiti dei buoni padri e delle buone madri di famiglia. Invece di polemizzare con i sindacati e con le associazioni basta dire: promuoviamo una grande azione formativa in tema di salute. Introduciamo nel mansionario di tutti i lavoratori della scuola che la cura della salute è un compito condiviso, un impegno umano che viene a monte di qualsiasi competenza o contenzioso sindacale. Forse non si arriverà ad un accordo ma almeno si apre una riflessione che aiuta tutti ad affrontare le difficoltà. In alternativa abbiamo solo persone terrorizzate e inchiodate da veti incrociati e tabù mentali.
Non solo. Un ‘patto di salute’ può essere un primo passo perché la scuola sia comunità ossia un luogo dove si costruisce e circola la fiducia reciproca; la pandemia può essere ancora un‘occasione di crescita a patto che si abbandoni la rigidità gerarchica , a patto che si esca fiori della logica del contrattare e si entri in quella dell’allearsi.
Abbiamo discusso di queste cose con il gruppo di lavoro di una scuola di periferia, abbiamo condiviso che è necessario nella scuola un ‘patto di salute’ ossia un’alleanza tra scuola e famiglie che concordano di dover collaborare a migliorare lo stato di benessere delle giovani persone curando insieme l’igiene collettiva ed individuale riguardante la pandemia in un quadro generale in cui si affrontano tutti i problemi di salute che in questo territorio sono il sovrappeso infantile che sfiora il 50% degli allievi, la cattiva alimentazione, l’assenza di attività motorie, e vari fattori che alimentano il disagio relazionale (molte famiglie monoparentali, madri giovanissime, famiglie sotto la soglia di povertà; quasi metà dei ragazzi in età pediatrica priva del pediatra di famiglia etc…)
E’ necessario che tutte le famiglie sappiano che la scuola sta facendo tutto il possibile per minimizzare il rischio di infezioni e per contenere tempestivamente l’eventuale insorgere di focolai infettivi. Tutto questo avviene in una situazione in cui finalmente da parte di un esponente governativo è stato detto che il rischio zero non esiste. Ma questo avviene dopo che per sei mesi le comunicazioni governative e i mass media in coro hanno alimentato da un lato un clima di terrore, dall’altro l’illusione di un’imminente eliminazione del contagio. Occorre quindi una riconversione psichica di 180 gradi, un cambio di paradigma se preferite. in cui si passa dall’inseguire il mito dell’immunità e dell’attesa messianica del miracolo, al dover elaborare in prima persona strategie di ‘convivenza’ con il rischio; passare dalla fiducia nei grandi-scienziati-che-stanno-lavorando-per-la-soluzione-finale (con questa ignobilissima gara tra americani, cinesi, e russi a chi fa prima) alla fiducia reciproca che tutti stiano facendo del proprio meglio per non correre rischi inutili o eccessivi.


Patto di salute 1.1

Abbiamo fatto il primo passo: 18 piccoli incontri con tutti i genitori di una scuola semplicemente per dire che la scuola sta provvedendo ad adottare tutte le misure necessarie, cosa succederà se si individua un caso di febbre, cosa si farà se si verifica un caso di infezione, …. tutto quello che serve.
Misurare la temperatura all’ingresso è risultata sia tra i docenti sia tra i genitori la misura più richiesta. Perché? Perché la fiducia reciproca è molto bassa, perché la comunità non esiste, a mala pena c’è la sua retorica. Non serve solo che ognuno misuri la temperatura, ma è necessario che ognuno si fidi che tutti gli altri lo facciano, e questo non è scontato. Entrando in un supermercato mi misurano la temperatura e questo mi aiuta a girare più tranquillamente nei reparti. Perché questo non deve avvenire a scuola? Lo Stato, il governo che in questo momento lo gestisce, non solo non ha preso misure per fare questo ma addirittura ha impugnato il provvedimento regionale del Piemonte, il presidente regionale campano per evitare questa sorte si è limitato a consigliare il misurare la temperatura all’ingresso.
Le squadre di tecnici e di esperti non si occupano dell’impatto sociale e psichico delle misure: non capiscono che per occuparsi di salute pubblica bisogna occuparsi delle relazioni tra le persone e che lo Stato è tale se assolve a funzioni pubbliche a cui non può assolvere il singolo.
Questa esperienza ci dice qualcosa anche sul ruolo dei tecnici e degli esperti. Il governo dice: “questa è la prescrizione dei tecnici” e non c’è che obbedire. La domanda che faccio fin dall’inizio è: questi tecnici considerano tutte le variabili in gioco? Ha senso gestire le misure in modo che il grado di insicurezza e di sfiducia nelle relazioni aumenti invece di diminuire?
Olismo
Da wikipedia: L'olismo (dal greco ὅλος hòlos, cioè «totale», «globale») è una posizione teorica (in ambito filosofico e scientifico, contrapposta al riduzionismo) secondo la quale le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue singole componenti, poiché la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente.
Affrontare la salute collettiva impone necessariamente un approccio olistico, a tutto tondo e soprattutto partecipativo: chi è informato e consapevole può applicare meglio le prescrizioni, ma sa anche come contemperare queste con altre esigenze. Informare preventivamente le famiglie di ciò che si farà serve anche a questo, a sostenere la partecipazione e la responsabilità.
In questi incontri ciò che ci sembra sia stato particolarmente apprezzato è la dichiarazione che il rischio zero non esiste e che la fine del “restate rinchiusi” significa che la responsabilità per la riduzione del rischio è di tutti e non è delegabile a uomini in qualche divisa che multano i trasgressori. La gestione del rischio richiede necessariamente promuovere la fiducia reciproca, la solidarietà umana: è questo che chiamiamo comunità.


Cambiare paradigma

A febbraio, facile profeta, mentre altri volevano aspettare non si sa cosa, dissi: “la scuola non riaprirà fino all’anno prossimo. E neppure questo è certo.”
Ora riapre, ci sono piccoli cambiamenti logistici (eliminati in molte scuole gli armadietti con i materiali dei docenti) banchi a rotelle - pochi - ma non è cambiato nulla nelle impostazioni generali, nel paradigma pedagogico che regola la scuola e quindi nel modo di affrontare la pandemia . E’ cambiato che qualcuno ha deciso che non è più possibile stare chiusi dentro. E’ cambiato che gli imperativi assoluti su mascherine, le distanze e quant’altro sembrano diventati relativi e trattabili.
Possiamo interpretare come più ci piace i motivi di questi cambiamenti, ma innanzi tutto dobbiamo capire che c’è un cambio di paradigma non dichiarato.
Il termine paradigma risale a Platone, ma è stato rinnovato da Thomas Kuhn storico della scienza che descrive il paradigma come insieme di teorie e strumenti che definiscono una metodologia scientifica. Le rivoluzioni scientifiche, secondo questo punto di vista, sono nient’altro che una cambio di paradigma, ossia di punti di riferimento. Ciò che Kuhn mette in evidenza con questo costrutto è che non basta ‘falsificare’ una teoria con un contro-esempio, ma è necessario un complesso processo sociale in cui nuovi strumenti si affermano sostituendo quelli vecchi. Bene fece Galilei ad abiurare: non erano maturi i tempi, l’organizzazione della società e della scienza non erano pronte.
Mi è necessario questo excursus per dire che, nella tradizione intellettualistica e idealistica che connota gli intellettuali italiani e quella particolare categoria di intellettuali che sono gli insegnanti, assistiamo a continui cambi di paradigma – il paradigma nei fatti è assimilato ad una moda - senza che neppure si prenda nota che si sta cambiando binario. C’è una sorta di agnosticismo secondo cui un paradigma vale l’altro, tanto nella realtà non cambia niente.
Stavolta è diverso perché passare dal “restate chiusi dentro” al “conviviamo col Corona Virus” implica passaggi pratici che marcano il cambiamento, che sono indigesti, soprattutto dopo che le persone sono state tenute a casa non attraverso il convincimento ma attraverso una campagna di terrore.


Immunità e febbre del sabato sera

Il “paradigma dell’immunità” è stato individuato da alcuni filosofi contemporanei come il paradigma ideale della società borghese, l’utopia immanente delle nostra società che ci dice che possiamo vivere una vita immune: immune dalle malattie, immune dalle catastrofi naturali, immune da tutto quello che ci riporta a considerare la nostra essenza corporea che appartiene alla natura più che noi stessi, e che come tale ha autonomi comportamenti, frammento di natura immerso in altra natura. Questo paradigma è congeniale all’uomo borghese, a colui che, chiuso nelle mura del borgo, pensa di poter controllare da posizione protetta il mondo intero e di bastare a se stesso per ogni bisogno. È congeniale al sistema capitalistico perché nulla si può sottrarre all’economia di mercato e al libero gioco dei capitali.
In questo paradigma non c’è posto per l’imprevisto, o meglio ogni imprevisto viene ricondotto ad una procedura già nota, al mercato che tutto governa. Ma tutto questo ha un pesante risvolto psicologico, l’uomo immune pensa di non avere bisogno degli altri, persino l’essere nato da un corpo di donna gli fa problema, è terrorizzato dalle infezioni: da quelle del corpo ma anche da quelle dello spirito. Il linguaggio della personalità autoritaria, del fascistoide che anela alla purezza, è connotato da termini che rimandano all’infezione, alla putrefazione, all’impurità, a quelle che un tempo si chiamavano malattie veneree. Ogni cambiamento sociale, ogni ingresso in società di nuovi soggetti viene assimilato a una infezione, alla corruzione della carne, della razza. Starsene chiusi dentro è l’ideale del borghese impotente, che non governa il suo mondo ma ne è governato, dove i muri – di mattoni e ideologici – sostituiscono la forza interiore, sono l’esoscheletro che sostituisce l’assenza di spina dorsale (anche per questo sono ossessionati dalla spina dorsale, e da altri attributi corporei).
La “febbre del sabato sera”, “lo sballo” non contraddice questo ideale claustrale ma ne è il complemento, lo specchio: il corpo maltrattato, i sensi deformati, la sfida al pericolo restituiscono vitalità e forza apparenti a chi non ne ha di suo. Vi ricordate l’orgoglio di tornare alle discoteche dopo gli attentati terroristici? Si diceva: sono un attacco al nostro stile di vita, ma noi ce lo riprendiamo. E’ successo lo stesso col Covid19: milioni di persone – stavolta senza cori plaudenti - si sono tuffate nel pericolo con le conseguenze che sappiamo. Perché le personalità autoritarie di tutto il mondo hanno tanta difficoltà a riconoscere la pandemia? Perché dovrebbero riconoscere la propria impotenza, perché dovrebbero sottostare alle regole, dovrebbero riconoscersi simili agli altri.
Nel 1876 Leopoldo Franchetti - autore della prima grande inchiesta su povertà e mafia - individuò la categoria dei ‘facinorosi della classe media’ che in un mondo ordinato e regolato si volevano fare spazio infrangendo ogni regola, cercando la rissa e la sopraffazione fisica. Credo sia importante ricordare che in una società che si ritiene ordinata, che trasuda da ogni poro il politicamente corretto, ci siano molti – troppi – che smaniano di menare le mani, di tagliare corto: anche con il virus.


La scuola delle certezze, la scuola della ricerca

La scuola negli stati moderni è figlia di questo paradigma: trasmette certezze, insegna a stare nei limiti, non insegna il cambiamento ma a diventare ‘araldi’ degli eventi immanenti al sistema, profeti del già noto. Le discipline scolastiche si distinguono dalle omonime discipline scientifiche perché tutto si trova nella casella giusta, perché pongono domande di cui già si conosce le risposte. La fatica classificatoria delle discipline scolastiche è immane e assieme violenta, capace di trasformare un abito in camicia di forza pur di farci entrare dentro ciò che sfuggirebbe a qualsiasi classificazione: ne fanno le spese i poeti e gli artisti di tutte le specie che fanno dell’uscire fuori dalle cornici esistenti la loro ragione di vita; ne fanno le spese gli educatori la cui missione è molto simile a quella degli artisti: far uscire le persone dallo stato di cose esistenti. Ne fa le spese la missione educativa che fa parte del vissuto di chiunque abbia intrapreso il lavoro di docente come lavoro educativo e non come semplice lavoro salariato.
Un correlato importante del paradigma dell’immunità è la sua natura intrinsecamente gerarchica, la governance – ossia il sistema di governo – di un sistema immune è la gerarchia: il vertice già sa, non c’è nulla che non possa essere previsto, l’imprevisto è solo qualcosa di non ancora accaduto ma è certamente prevedibile. Il gerarca, colui che sta a un dato gradino della gerarchia, può dare disposizioni chiare e distinte perché chiara e distinta è la sua visione, perché il suo potere deriva dall’aver ha già pensato tutto il pensabile. Anzi potremmo dire che una visione del mondo fondata sull’immunità è l’unica possibile per una organizzazione gerarchica. L’organizzazione gerarchica è sterile, non produce nulla di nuovo, amministra l’esistente. Il gerarca non è una autorità ossia non accresce – da augere in latino – il patrimonio esistente, non si distingue dai sottoposti per capacità generative ma solo per capacità di comando, per il dominio che esercita.
Una conseguenza importante sul piano cognitivo riguarda il posto del possibile e del probabile nel nostro sistema di pensiero. L’immunità non è altro che l’affermazione che non è possibile infettarsi. Possibile è qualsiasi cosa possa discendere da premesse date, qualsiasi cosa sia pensabile in un certo contesto. Se attraverso sulle strisce pedonali è possibile che arrivi un bolide a 100 all’ora e mi metta sotto. È possibile, posso esibire le prove che qualche volta è anche successo. In realtà io continuo ad attraversare sulle strisce non perché sia incosciente ma perché la probabilità che realmente accada ciò che è possibile, è piuttosto remota. Ci sono centinaia di atti che tutti i giorni compiamo e che rispondono al criterio di probabilità. Quando ci riferiamo alla possibilità rischiamo fortemente di diventare psicotici: una eventualità viene presentificata e resa condizionante dell’azione. La paralisi totale - e neanche quella - è l’unica possibilità di vivere, in ogni momento il cielo ti può cascare addosso.
L’idea ingenua di sicurezza, spesso una vera religione per i responsabili della sicurezza – è che seguendo certe procedure e certe indicazioni, si sia al sicuro da un certo pericolo. In realtà non è così, semplicemente riduciamo di molto la probabilità che un evento pericoloso ci danneggi. Ma la gerarchia ha bisogno di certezze e per questo qualsiasi dispositivo di sicurezza viene spacciato come se garantisse l’immunità.


La democrazia del sapere e lo spirito di ricerca

Un’organizzazione di ricerca è creativa e si basa su principi opposti: la governance è basata sul sapere distribuito, l’efficienza non dipende dall’obbedienza ma dalla partecipazione ossia dalle capacità decentrate di decisione, la sicurezza dipende non dall’osservanza di norme precostituite ma dalla capacità di valutare i rischi. Le posizioni di vertice non sono basate sul comando ma sulle capacità generative, sulla capacità di produrre nuovi risultati a partire dalle risorse date. Il potere dipende dalla capacità di fronteggiare gli imprevisti, di navigare nel mare dell’incertezza piuttosto che nel mare della tranquillità. La psiche individuale non si rinchiude, ma si apre all’esplorazione, affronta l’ignoto, mette alla prova le proprie facoltà.
L’organizzazione psichica dei giovani è quella più favorevole alla ricerca e alla creatività. Se l’umano consiste nell’essere essere disponibili a esplorare e creare, allora l’umanità giovanile è l’unica di cui disponiamo.
Le coppie gerarchia/autorità, possibile e probabile, immunità e rischio, certezza incertezza, riproduzione/creazione, trasmissione/risignificazione, sono coppie sempre presenti e sono alla base di tensioni e conflittualità che non si risolvono. Il paradigma della gerarchia prevede solo la punizione e la repressione dei comportamenti fuori norma, il paradigma della partecipazione e della ricerca prevede la possibilità di conflitto e prevede la possibilità di soluzioni locali e decentrate del conflitto.
Una governance comunitaria mette al centro la riflessività e non l’obbedienza. Per avere un sapere distribuito è necessario che la funzione riflessiva e teorica non sia avocata dal gerarca, ma sia distribuita tra tutti i membri, che il sapere sia costruito nei luoghi dell’esperienza attraverso la riflessione. Professionista riflessivo è l’espressione che si usa per questo tipo di operatori che non applicano formule professionali precostituite, ma costruiscono il sapere professionale strada facendo.
Secondo il mio punto di vista la crisi pandemica ha messo in evidenza a livello mondiale l’insufficienza del modello gerarchico, ha fatto capire anche ai sassi che coloro che detengono il potere in realtà non hanno potere, non hanno capacità di governare gli eventi, di muoversi adeguatamene in un mondo dove domina l’incertezza. E particolarmente il punto di fragilità per tutti i governanti è stata la scuola: una organizzazione che si pretende debba in qualche modo rifondare il contratto sociale dell’intera società restata per mesi ‘chiusa dentro’, impossibilitata a dare il proprio contributo all’edificio sociale. Non era successo nemmeno in tempo di guerra.
La bestia nera dei cultori delle certezze è stato il portatore sano, il portatore di virus asintomatico. Il portatore sano può essere ovunque, è subdolamente immune, crea quell’incertezza a cui si risponde ‘chiusi dentro’.
Un’organizzazione gerarchica non può fare altro che chiudersi dentro di fronte all’incerto. Una nostra allieva, a marzo, in occasione di un incontro distanziato disse: “ma noi in fondo siamo congiunti, perché Maestri di Strada funziona come una famiglia”. Che differenza c’è tra un conoscente, un amico, un congiunto? Unicamente che c’è un livello di fiducia reciproca molto alto, che qualsiasi emergenza si verifichi nessuno la scaricherà sull’altro. Una comunità non è altro che un gruppo in cui le relazioni sono abbastanza intense da costituire “obbligazioni reciproche” ed è quello che ha detto quella allieva dicendo: ”ma noi siamo congiunti”.
Dunque il motivo per cui la scuola non riapriva ed ha difficoltà a riaprire non è il Corona virus, ma l’insufficiente ‘congiunzione’ tra i suoi operatori: la scuola non è una comunità, troppo spesso è un campo di battaglia tra fazioni avverse dove non esiste alcuna attività finalizzata a creare uno spirito di comunità (spirito di corpo – invece - quanto ne volete).
Il modello gerarchico in qualche modo ha imparato a tener conto dell’imprevisto: si affida ai tecnici, a coloro che sanno tutto sul fenomeno imprevisto (salvo a scoprire che i più onesti dichiarano senza reticenze che le conoscenze sull’argomento in realtà sono limitate) e stanno riproducendo questo modello anche su piccola scala: la responsabilità di chiudere o meno va alle Asl, gli stress psichici non vanno contenuti ma si manda l’allievo dallo psicologo, degli allievi dispersi si occuperanno pedagogisti ed educatori. Il problema non viene mai affrontato ma semplicemente spostato, basta che non metta in discussione il paradigma implicito ed esplicito.
Maestri di strada è una comunità di professionisti riflessivi e proprio per questo ha potuto affrontare l’emergenza pandemica reinventando il ‘lavoro di strada’, mantenendo vive le proprie capacità riflessive e creando situazioni accoglienti anche per interi istituti scolastici desiderosi di mantenere un contatto vivo con i propri allievi.
Ai molti che in questi mesi sentono l’insofferenza per risposte gerarchiche inadeguate sotto tutti i profili faccio l’invito, piuttosto che cercare soluzioni alternative al metro di distanza e alle mascherine – ma vi pare possibile? - di ragionare sul modello di governance che produce una scuola ingovernabile. Io penso che il Corona Virus ci dia l’occasione per una discussione sul paradigma della scuola che non mai avuto l’eguale dai tempi di Comenio ad oggi. Perdersi dietro soluzioni di bandiera, denunce di condotte scandalose mi pare significhi sprecare un’occasione: bisogna mettere in discussione il modello e non solo i sintomi del suo disastro.


Patto di salute 1.2

Abbiamo fatto un secondo passo, un webinar con 90 tra docenti ed educatori in cui abbiamo parlato con il risk manager di un ospedale e con una maestra che ci hanno raccontato come stanno facendo i conti con la pandemia: ci serve conoscenza e cultura, costruire relazioni e fiducia per affrontare il rischio, perché in questa fase dobbiamo passare dalla responsabilità di tutti avocata dal potere, alla responsabilità di ciascuno, a riflettere sui nostri comportamenti sentendola solidarietà di una comunità è piuttosto che le disposizioni del potere 

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